Alessandro Poerio – Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani
La Sortita e gli Ideali del ’48 a cura di Associazione Valdemare Mestre (27 ottobre2012)
Alessandro Poerio, insigne poeta, patriota e conoscitore di numerose lingue, nacque a Napoli il 27 agosto 1802 dal Barone Giuseppe Poerio, patriota ed illustre penalista, e da Carolina Sossisergio.
Nel 1816, dopo la Restaurazione Borbonica, seguì il padre in esilio a Firenze, dove fu ammesso al corso di disegno di figura e al corso di declamazione all’Accademia di Belle Arti. Nel 1819, ricevuta la grazia dal Re, tornò con la propria famiglia a Napoli, dove egli superò l’esame per accedere alla carica di segretario presso il Ministero degli Esteri.
Dopo lo scoppio dei moti costituzionali, si arruolò nell’esercito di Guglielmo Pepe e prese parte alla battaglia di Rieti. Nel 1821 fu costretto, con i suoi familiari ad andare in esilio a Graz.
Dopo aver ottenuto il trasferimento da Graz a Trieste, nel 1823 la famiglia Poerio andò in esilio a Firenze, dove iniziò per Alessandro un periodo di arricchimento spirituale e culturale. Nel 1825 il Poerio intraprese il viaggio in Germania, dove si recò per motivi di studio e soprattutto per conoscere Goethe, il quale lo ricevette con molta cortesia nella sua casa a Weimar. Durante la permanenza in Germania, che si protrasse fino al settembre 1826, Alessandro Poerio tradusse l’Ifigenia e La Sposa di Corinto di Goethe ed ebbe modo di seguire le lezioni universitarie di insigni professori all’Università di Gottinga e di Lipsia.
Tornato a Firenze, nel 1826, entrò a far parte del circolo culturale di G. P. Vieusseux, dove fece amicizia con G. Battista Niccolini, il Giordani, il Capponi, il Manzoni, il Giusti, Niccolò Puccini, il Mamiani ed Antonio Ranieri. Nel 1827 incontrò per la prima volta Giacomo Leopardi e tra di loro iniziò una profonda amicizia che durò fino alla morte di quest’ultimo.
Dopo i moti del 1830, Alessandro Poerio, insieme al padre fu costretto ad andare in esilio in Francia, dove conobbe illustri letterati ed uomini politici (Cousin, Guizot, Broglie, Humboldt, Chautebriand, George Sand, ecc.) e dove progettò, insieme al padre, la realizzazione di una rivista “Bibliothèque française et étrangere”, con lo scopo di far conoscere i progressi culturali delle nazioni europee e soprattutto dell’Italia in Francia.
Nel marzo 1831 tentò, insieme al Pepe, di organizzare da Marsiglia una spedizione in Italia a sostegno dei rivoltosi italiani. Questo episodio, nonostante il fallimento, provocò il prolungamento del suo esilio a Parigi fino al 1835.
Nell’agosto 1832 si recò, insieme al padre a Londra, allo scopo di trovare degli associati per il giornale che aveva intenzione di stampare. Insieme al padre, il Poerio fece visita a Sir Richard Acton, Lord Russel, Lord Holland, Lady Burghersh, il Duca di Hamilton ed altre personalità inglesi, che si mostrarono ben disposte ad accettare l’invito ad associarsi al giornale.
Dopo una breve tappa a Bruxelles, nell’ottobre 1832 tornò a Parigi; lì, nell’anno 1834, conobbe Niccolò Tommaseo, con il quale instaurò un lungo e duraturo rapporto di amicizia e reciproca stima.
Dopo quindici anni di esilio, nel 1835 Alessandro Poerio tornò a Napoli, dove svolse il lavoro presso la segreteria di una banca e presso lo studio legale del padre. A Napoli riprese lo studio, già iniziato a Parigi, del sanscrito e continuò a comporre versi e studiare i classici e si mantenne in costante contatto epistolare con i maggiori letterati del tempo.
Il Leopardi ed il Ranieri furono i suoi più cari amici nella città di Napoli e con essi spesso andava in villeggiatura sul Vesuvio.
Nell’aprile 1843, dopo ripetute esortazioni da parte dei suoi amici letterati, che ammiravano i suoi versi, il Poerio si decise a far stampare anonime a Parigi, dando l’incarico a due suoi amici che si trovavano allora in quella città, alcune sue liriche, le uniche stampate durante la sua vita. Tutte le altre sue numerosissime poesie sono state pubblicate postume.
Nel 1845, al settimo Congresso degli Scienziati italiani, tenutosi a Napoli, ebbe modo di conoscere Giuseppe Montanelli, che divenne uno dei suoi migliori amici e con il quale egli si tenne in stretta corrispondenza epistolare fino alla morte.
Nel 1847, dopo l’elezione di PIO IX, si recò a Roma, dove incontrò Ottilie von Goethe e Adele Schopenauer.
Nei primi mesi del 1848 collaborò al giornale diretto da Silvio Spaventa “Il Nazionale”. Il 4 maggio dello stesso anno, dopo aver rifiutato l’incarico offertogli dal Governo Costituzionale napoletano di Ministro presso la corte di Toscana o presso la Repubblica Francese, partì al seguito del Pepe a bordo dello Stromboli diretto ad Ancona, in qualità di semplice milite della Guardia Nazionale di Napoli.
Il 13 giugno si recò a Venezia, dove il 27 ottobre diede il suo estremo contributo alla liberazione della città, combattendo a Mestre e riportando gravi ferite che gli provocarono l’amputazione della gamba destra e la successiva morte, avvenuta a Venezia, nella casa dove soggiornava Guglielmo Pepe, il 3 novembre 1848.
“Chi legga ora le liriche del Poerio (non solo quelle contenute nella raccolta edita nel 1852, ma anche le altre, sparsamente pubblicate postume); chi legga libero dai preconcetti e dall’indiscernimento, onde purtroppo letterati e accademici hanno ora esaltato a poesia le esercitazioni e le sdolcinature, ora rinnegato e spregiato la rara e timida poesia, e sotto nome di storia letteraria introdotto una sequela di frigidi verseggiatori, che travolge seco e nasconde le poche anime commosse; chi procuri di tornare, come si deve, alla semplice realtà delle cose, sarà portato a riconoscere che, dopo il Manzoni ed il Leopardi, nel periodo che va dal 1830 al ’48, l’opera di Alessandro Poerio è, accanto a quelle del Tommaseo e del Giusti, la sola che meriti di suscitare ancora l’interessamento dell’amatore di poesia” Benedetto Croce,
Una famiglia di patrioti.
Dal volgo invida sale
Maraviglia al cantor quand’ei per novi
Spazj libera l’ale:
Oh fortunata Fantasia che trovi
Tante letizie sparte
Per l’Universo e le componi in arte!
Ma quegli in suo secreto
Divina e piagne dell’umane cose;
Nel suo riso più lieto
Sono cocenti lacrime nascose;
Altrui splendido duce
Non gode raggio della propria luce.
E della ignota e cara
Felicità, ch’è suo sospiro eterno,
A lui giunge l’amara
Favola come inesorato scherno;
E non compreso ei solo
Riman che abbraccia delle genti il duolo.
Raro il cor femminile
In tanta altezza con Amore ascende;
E s’anco alla gentile
Che del poeta l’anima comprende
E di sé lo consola,
Ei tutto di piacer trepido vola,
Non s’acqueta, ritiene
Maggior desiro, una celeste forma
A visitarlo viene
Spesso improvviso e via dispar senz’orma;
E dietro alla fuggita
Egli consuma l’affannosa vita.
Ahi prenderebbe a schivo
L’infausto dono dell’arguto ingegno,
Se non fosse nativo
Impeto che diritto al proprio segno
Sì come strale il mosse,
e se l’orgoglio del dolor non fosse.
Vieni, e fidente posa
In quest’anima mia che ti comprende,
L’anima dolorosa.
Parla o taci, qual vuoi,
Sempre, o gentile, intende
Il mio dolore antico i dolor tuoi.
Se tra la vana gente
T’aggirasti gran tempo assai più solo
Che il deserto silente,
Se il riso di Natura
Non ti fu tregua al duolo,
Anzi parve insultar la tua sventura;
Vieni, o gentil, deh vieni,
E sentirai se alquanto il divinato
Tuo cor si rassereni,
E pel tuo duolo istesso
Più caramente amato,
Benedirai della pietà l’amplesso.
Da le nubi feconde
Primavera giù piove, e rugiadosa
Da la terra rïesce,
Sovra l’acque si posa,
All’aure fuggitive
Con l’alito si mesce,
Si trascolora di volubil luce,
E in ogni petto vive.
Eppur, mentre ogni petto
Ne bee tanto diletto,
Una mestizia trepida e segreta
Profondamente induce;
Qual giovin donna e lieta
Che, mentre t’empie di dolcezza il core,
Spira l’affanno donde nasce Amore.
Per questa terra d’ubertà felice,
Che facile risponde
All’eterea vezzosa allettatrice,
Mio sguardo erra e soggiorna;
Ma il pensier se ne vola
Assai lungi, e ritorna
Ignudo e disïoso di parola.
Forte m’invoglio, ove riposta valle
Giace, quivi gittar le stanche membra.
La chiusa solitudine del loco
Riposo antico e mia pace mi sembra,
A cui non venni per girar di calle,
Ma come augello ad inaccesso nido.
Perché sì pieno error dura sì poco?
Del mondo ch’io lasciai dopo le spalle
Pur mi raggiunge il grido.
E in te, riso de l’anno, in te possente
Ebbrezza di Natura, eterne vie
Di futuro dolor trova la mente.
Come fuor de la notte il sonno balza,
E rende al Sol le cose
Cui già la nova tenebria minaccia;
Tale dal verno Primavera, ed alza
La bellissima faccia,
E fa intorno fiorir le piante e l’erbe
Vivaci, inconsapevoli di morte
Brevemente superbe.
Da una stella lontana e come ascosa
Fra gli splendori del notturno Cielo,
Mi viene una pensosa
Gioja, che sboccia come fior da stelo;
E come di confuse alme fragranze,
Empiemi di memorie e di speranze.
S’ella non fosse eterna, io breve cosa,
La crederei per la mia pace nata,
Tanto cara mi giugne e innamorata
La sua pallida luce.
Finch’ella non tramonti in lei son fiso,
Come tra mille aspetti
Occhio rivolto a desiato viso.
L’altre eteree sorelle,
Assai di lei più belle,
Supreme intelligenze radïanti
Paiono al mio pensier; ma questa sola
Questa viene al cor mio, come Pietade
Che della terra i pianti
Intende e racconsola.
Io men vo lento per la selva romita
Ne’ passi ne’ pensier vagante e solo,
E mentre stampo di vestigie il suolo
Misuro e calco la trascorsa vita.
Penso quanta stagione m’è già sfiorita,
Penso degli anni e delle cose al volo,
Pien di memorie e di rimorso un duolo
M’assale e sgrida l’anima smarrita.
Non suoni o canti od altra festa
Svia li pensieri con piacente inganno,
Qui è silenzio, che l’alma in sé profonda,
In quest’ombra a me il Ver si manifesta;
Sento le colpe e riconosco il danno,
Ed un terror m’invade e mi circonda.
Non fiori, non carmi
Degli avi sull’ossa,
Ma il suono sia d’armi,
Ma i serti sien l’opre,
Ma tutta sia scossa
Da guerra – la terra
Che quelle ricopre.
Sia guerra tremenda,
Sia guerra che sconti
La rea servitù;
Agli avi rimonti,
Ne’ posteri scenda
La nostra virtù.
Divampi di vita
La speme latente
Di scherno nutrita.
Percuota gli strani
Che in questa languente
Beltate – sfrenate
Cacciaron le mani,
D’un lungo soffrire
Sforzante a vendetta,
L’adulto furor.
Sorgiamo; e la stretta
Concordia dell’ire
Sia l’italo Amor.
Sien l’empie memorie
D’oltraggi fraterni,
D’iniquie vittorie
Per sempre velate,
Ma resti e s’eterni
Nel core – un orrore
Di cose esecrate;
E, Italia, i tuoi figli
Correndo ad armarsi
Con libera man,
Nel forte abbracciarsi
Tra lieti perigli
Fratelli saran.
S’io potessi levarmi ove l’idea
Qual chiara stella di Beltà m’invita,
Ed a ciò che nell’anima si crea
Spirar l’esterna vita,
Forse dal suon del disioso canto
Verrebbe amor nell’anime sorelle;
Forse le sforzerei talvolta al pianto
In cui si fan più belle;
Forse benedicendo al mio dolore
N’avrian dolcezza, e la parola mia
Lieta del suo passar di core in core
A me ritorneria.
Pur così com’ io dico, oltre la scorza,
Un’ alma sola penetri, e discenda
Divinatrice di secreta forza
Ed il mio cor comprenda;
Crescerà dentro il divinato affetto,
Sgorgherà come dal tentato suolo
Sgorga l’onda nascosa, e l’intelletto
Con più lontano volo
Del Vero la recondita bellezza
Vagheggerà più fiso, e più profonda
Fia di mistero in sì lucente altezza
La gioja vereconda.
Quella pace invocata e sempre invano
Sì ch’era fatta disperata cosa,
Subitamente a me vien da lontano,
E nel profondo del mio cor si posa.
Una serena voluttà tranquilla
M’empie e si spande sulle cose intorno,
Non qual luce che abbaglia e disfavilla,
Ma quasi albor di temperato giorno,
Non è obblio del dolor che mi percosse,
Non è speranza di caduco bene;
È un arcano sentir, come se fosse
Arra del premio di cotante pene.
Quel Ver che di bellezza e d’amor s’armi
Vince ogni dubbio che nel cor serpeva,
Quel superno favor che a visitarmi
Scende, in altezza d’umiltà mi leva.
S’anco nel verso mio non si trasfonda
Questa dolcezza che il mio sen penètra,
Pago sarò che tacita m’ inonda;
Abiti meco e spezzerò la cetra.
Nel membrar la soave Primavera
Degli anni miei, quando il mio cor s’apriva;
Quando l’intatta Fantasia fioriva
Liberamente di ricchezza intera;
Quando la speme, la gentil foriera
Delle gioje promesse in me gioiva;
E mentre tutto ardea di luce viva,
Secreto senso l’Universo m’era;
Già non m’assale disperato il duolo,
Ma della fuga di sì dolci larve
Una mestizia senza fin pensosa.
E talor benché tardo e stanco e solo,
Sembrami posseder quel che disparve;
Tale riveggo ogni perduta cosa.
Così cantasti del mortal dolore,
Come colui che da pietà costretto
Non può celar l’amore
E le vigilie del pensoso petto.
Vien dal profondo e trema di desiro,
E ferve d’intelletto il tuo sospiro.
Ma perché d’un pensier ti fai divieto
Che solo ogni dolor compone in pace,
A intentabil secreto
Movendo assalto con parola audace?
Se n’on t’alza la fede onnipotente,
L’ingenita virtù porti tua mente.
Interminato immaginar sereno
D’ignote altezze ne largì Natura,
E a te piovea nel seno
Sua provvedenza splendida e sicura.
Deh! Non metter le mani ingiurïose
Nel vel contesto di sì vaghe cose.
Ma come il raggio che dovunque offende,
Si torce in alto ed alla patria torna,
Tale il tuo verso ascende;
Ed il tuo disperar così si adorna
E trasfigura di beata luce
Che al Ver, cui chiami errore, altrui conduce.
E manda a’ tuoi lamenti innamorati
L’eterno verdeggiar dell’altra sponda
I suoi spirti odorati.
Spesso l’anima mia si fé profonda
Di gioja nel tuo carme, e sol mi dolsi
Che dall’affanno tuo pace raccolsi.
O anima ferita
Da la discorde vita,
Vaga qual eri de l’eterna idea
Forse più ch’altra fosse anima umana,
Meritamente, a breve andar, ti parve
La terra amara e vana
Al paragon di tue beate larve.
E tu, Giacomo, tu gloria secura,
Tu maraviglia dell’età futura,
Passasti in fra la gente oscuro e solo.
Ma poi che accolse le tue membra vinte
Dalla invocata morte il freddo avello,
Pari a sublime sprigionato augello,
S’alzò tua fama a volo.
Alla vergine ignara
Cui tenta il sen d’amor cura segreta,
La tua canzon fu cara;
E quei che stanca nell’eterne cose
La mente irrequieta,
E l’esule affannoso a cui ritorna
Più bella della patria ognor l’imago,
E qualunque erra qui misero e vago
D’un ben che gli traluca, e non aggiorna,
Sentîr l’imperio del gentil tuo verso;
Ché tu fosti, o cantore,
Intelletto e pietà d’ogni dolore.
Dimmi, e da quelle note
Sì meste, in che de’ tui
E degli affanni altrui tanto sospiri,
Dimmi, com’esser puote
Ch’aura di greca giovinezza spiri?
E lamentavi che la tua perisse
Come vecchiezza. Il canto
Che la lesbia fanciulla,
Abbandonata amante, ultimo disse,
Tu divinasti con più grave pianto;
Mai di conscie faville
A te non lampeggiar care pupille.
O spirito salito
All’Amore infinito,
Chi ti persegue d’una vil rampogna,
Perché mentre il mortal vel t’involse,
Disdegnasti menzogna,
E con fulgido verso in su lo schietto
Labro sempre venia l’ intimo petto?
Generoso infelice,
Maledetto colui ch’empio ti dice!
Se per deserto strano
Il dubbio ti traea senza riposo,
Moria tremulo e lento
In arcana mestizia il tuo lamento.
Per precipite via
Se più del sacro Ver givi lontano,
Non fu bestemmia il disperato accento;
E l’affetto il volgea in armonia
Che al Cielo risalia.
Ed oh che santa carità ti prese
De la nativa terra!
Ed oh come irato il carme
Con impeto di guerra
Suonò vendetta ed arme!
Pietosamente a noi per fermo il Cielo
Te concedeva quando
(Spettacolo miserando)
D’ozïosa sventura Italia bruna,
Più non parea nessuna
Sentir vergogna di sofferte offese,
Incitator d’imprese
Che faccian forza a così rea fortuna:
Faranno, e allor che in libertà riscossa
L’altera donna fia cha in basso è volta,
E a cui sacrasti ingeno
E duolo e speme e sdegno,
Te certo ella porrà splendido segno
Fra i glorïosi che le infuser possa,
Se, fatta ignava e stolta,
Servitù non l’aspetti un’altra volta.
Era deserto il tempio ed una sola
Donna pregava con sì intenso affetto,
Che dal suo labbro non uscia parola
Ma il volto rilucea dell’intelletto.
E nullo suono che da labbro vola
Porìa dir la beltà di quell’ aspetto;
E la memoria mia si disconsola
Di non serbarlo forse intero e schietto.
E pace all’alma mi venia da quella
Vista, e’l dubbio che suol sì acutamente
Dentro me ragionar m’era lontano.
Impossibil parea che così bella
Crëatura, e degli occhi e della mente
Così perduta in Dio, pregasse invano.
(Dicembre 1847)
Bevve la terra italica
Del vostro sangue l’onda,
E piova più feconda
Giammai non penetrò.
Voi con ardir magnanimo
Di sacrificio intero,
Voi preparaste il Vero,
Il Ver che a noi spuntò.
Alziam concordi il cantico
Alla virtù di Pio,
Nel qual rivela Iddio
Questa novella età:
Ma pera chi dimentica
Quei che con largo affetto
Fer della vita getto
Per nostra libertà.
Ei d’alta, di profetica
Morte per noi moriro;
Con ultimo sospiro
Vòlto a’ futuri dì.
Ei sien subietto fervido
Di splendide canzoni,
Fin che nel mondo suoni
La lingua alma del sì.
Le tombe in cui si giacciono
L’ossa compiante e care
Sien ciascheduna altare
Di cittadino amor.
Innanzi a questi martiri
Prostatevi silenti,
Ma a sorgere frementi
Di bellico furor.
Questi dal nome italico
Inseparati nomi,
Che dall’oblio non domi
Ne’ secoli saran;
Questi son segni fulgidi
Sull’inclite bandiere
Che incontro allo straniere
Vendicatrici andran.
Dammi che l’alma mia non giaccia oppressa
Di dolor vano sotto inerte pondo,
Dammi che sorga alfin dal suo profondo
Piena del Cielo e conscia di sé stessa.
Dà che la forza in lei sì addentro impressa
Imprimer possa nell’esterno mondo;
Né trovi l’occhio suo menato a tondo
Solitudine immensa ed inaccessa.
Ahi! Lo spirto che val se fuor non spira?
La non comunicabile ricchezza
Del pensier disïoso angoscia tale
Gli è, che povero e nudo esser desira,
Perder senso d’amore e di bellezza,
Chinar l’avido sguardo e chiuder l’ale.
Quando il giorno dechina
Ascendo là donde si scopre il mare
Con più desio che all’ora mattutina,
Il saluto del Sol quand’egli appare
M’è caro sì, ma sua dolcezza è vinta
Da quella dell’addio nel tramontare.
E poi che in tutto s’è celato il sole
Ancor dipinte lascia
Di croco e d’or, di rose e di viole
Le lievi nubi per l’aere vaganti.
E’ l raggio estremo che quelle colora
È più gentil di quanti
Ornan la fronte della nunzia Aurora
Così l’umana gioja
Più dolce è sempre allor che par che muoia.
O Venezia, mai più l’intimo canto
Sgorgommi, come in te da vivo affetto!
Mai più sentii la voluttà del pianto
Come al tuo dolce aspetto!
Tu occorri a me quasi benigna amica
Conscia gentil d’ ogni dolor secreto
Dell’anima profonda; e par che dica:
– Ancora esser puoi lieto –
Una quïete nel mio cor s’induce
Ch’io perduta credei ne’ lunghi affanni;
E mi circonda una serena luce
Al tramontar degli anni.
Non gir vagando intorno, o Fantasia
Con ingegnoso errore;
Il misero goder nel suo dolore
Lascia all’anima mia.
Sei vanitade che s’aduna e solve
Come nubi leggiere;
Lasciami del dolor che in me si volve
Il misero godere.
Tu non m’inganni e sovra l’ali tue
Non s’abbandona al volo
Il cor, cui sola conceduta fue
La voluttà del duolo.
D’ogni del tuo tesor gemma più rara
Che profferisci lieta
M’è l’invocata lacrima più cara
Che l’occhio mio disseta.
O luce, agli occhi vita,
Casta nutrice dell’uman pensiero,
Che d’immortale gioventù vestita,
Spontanea rendi immagine del Vero,
Quando per l’arco dell’etera volta
Scendi amorosa a visitar la terra,
L’anima come del carcere tolta,
Trepida ad incontrarti si disserra.
Maraviglia aspettata, eppur novella,
Quanto nell’apparir, quanto se’ bella!
Il sereno Oriente
Dove dapprima è tua beltà dischiusa,
S’imporpora così come fiorente
Virginea gota di rossor soffusa.
Poi trïonfando nell’immenso agone
D’affocato splendor così t’accendi,
Che imago e paragone
E desiderio e Fantasia trascendi.
Salve divina, del Signor de’ Cieli
Riflessa gloria, che il mondo riveli!
O rapida de’ regni
Dell’unico Monarca vïatrice,
In te conosco i benedetti segni,
O dell’antica notte vittrice!
Primogenita tu della parola
Di Dio, che seco fosti all’opra eterna,
Sotto l’occhio di Lui vigili sola
Quant’Ei volle, creò, nutre, e governa,
E sovra l’ali tue nostro intelletto
S’alza dell’Invisibile al concetto.
Virtù sparsa e secreta
Donde s’aduna il Sol, donde s’innova,
Chi ti riceve in cor come il poeta?
Chi più s’irriga di tua dolce piova?
Larga t’apristi nel suo petto via,
E abbondante da quello inno ti suona,
Che perpetuo si mesce all’armonia
D’ogni altro canto al quale ei s’abbandona.
Simile al fior che al grande astro si gira,
L’alma sua vereconda a te sospira.
Come tu varïando
Nel settemplice raggio t’incolori,
Così da te spirato egli tentando
Va le gioje dell’estro ed i dolori
Con la man sulla corda fuggitiva,
Finché non trova la cara melode
In che il soperchio del sentir deriva;
E tener l’alto delle cose e’ gode,
E guatar lungi, come tu de’ monti
Più volentier ti posi in sulle fronti.
Sacro mistero induce
Nella sua mente il disparir del giorno,
Quando ti celi e morir sembri, o luce,
Ma lasci i messaggier del tuo ritorno.
La circondante notte a lui vien grata,
Che s’ingemma di te, quantunque bruna,
Allorché dalle stelle ardi velata
D’infinita distanza, e dalla luna
Fisa in te se’ rifratta, e sovra l’onde
Ti piaci di tremar chiare e profonde.
Notte gli occhi del Greco
Che dell’ira d’Achille il mondo empìo,
Notte premeva inconsolata; e cieco
L’Anglo che osò cantar quella di Dio
Per la colpa feconda de’ parenti
Primi nostri, dettava alle figliuole
Dal suo tacito labbro ancor pendenti;
Ma voi mirato avevano, o Luce, o Sole,
E dal memore seno in voi securo
Libero il carme uscia non perituro.
Forse poeti splendidi
Succederanno al pianto
Di nostre vite languide,
Forse opreran col canto.
Audace il lor pensiero
E gravido del Vero
Per la profonda età,
Qual occhio inevitabile,
Lungo cammin farà.
A noi confonde l’anima
Un’intima sventura,
Che di rimorso e tedio
S’aggrava e di paura.
Nel seno del poeta
Non s’agita il profeta,
Gli è chiuso l’avvenir;
In lui de’ morti secoli
S’accumula il patir.
Sente l’affetto surgere,
Ma un gelo antico affrena
L’onda sepolta, e correre
Non lascia la sua piena.
Pur ora il riconforta
Natura ch’era morta
Per lunga servitù,
Né del desio nell’impeto
È lena di Virtù.
Qual colpa inespïabile
Angoscia in noi risiede;
Essa d’Amore al cantico,
All’inno della Fede
Il suo lamento infonde,
Simile a gemebonde
Note d’ascoso augel
Tra le campagne floride
Sotto l’azzurro ciel.
Ma il dolor nostro è simbolo
Di tarda età caduca,
Ma i tempi si consumano,
Ma forza è che riluca
Sulla futura gente
Siccome su potente
Progenie un nuovo Sol;
Augurio ed infallibile
Promessa è il nostro duol.
E d’alto infaticabili
Veggenti i sacri vati
Si curveran com’angeli
Con occhi innamorati,
versando in ampj giri
Un’Armonia che spiri
L’acuta vision
Sovra la terra; e gli uomini
Commoverà quel suon,
Come nell’ore vergini
Del giovinetto mondo,
Quand’ei devoto e semplice
Li riverì profondo,
E nel balzar veloce
Dell’inspirata voce
Conobbe con terror
La prorompente immagine
Del Verbo creator.
Non fur di Giovinezza
Più rugiadose mai, né più odorate
Membra, né forme di schietta Bellezza
A più secreta Leggiadria sposate.
Ella si nacque del Tamigi in riva,
Ma d’Italia l’amor come Natura
Nell’alma le fioriva.
E venne la gentile,
E in Roma i dì traea meravigliando,
E nel lieto suo petto giovenile
Quella severa maestà temprando.
Così scherzar s’ardiva in sulla soglia
Delle vetuste e dell’eterne cose
Senza terror, né doglia.
E sovente si piacque
Per li campi cercar la giovinetta
Il fosco Tebro, e come quello l’acque
Contenute da margini saetta,
Tal costei della man sotto l’impero
Agitar si godea la vïolenta
Fuga del suo corsiero.
Oh quanto le giovava
Errar col fiume, accompagnar le sponde!
Qui tutta nel pensar s’abbandonava;
Qui dal suon cupo delle torbid’onde
Mirabile diletto ricevea;
Ma con l’onde seguenti ahi l’immaturo
Suo Fato si volvea!
E ruinò veloce,
E’l bel corpo con l’acque si confuse;
Gli occhi alzarsi e le braccia, uscì la voce,
Ma il flutto e’l mondo sovra lei si chiuse;
E muto il suo perir fu d’ogni traccia.
Raggio di Sol non venne in sull’eterno
Pallor della sua faccia.
I’ non la vidi mai
Splender di vita, ma nell’alto petto
Viva e morta la vergin portai,
Ma la perdei, ma nel dolor l’affetto
Mi si rivela, e prego: ove si giacque
Miseramente l’insepolta spoglia
Passin più lievi l’acque.
Poesia A Carlo Poerio di Niccoló Tommaseo Poesie di Alessandro Poerio
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